Dal 1987 fino ad oggi il poeta premio Nobel è stato prima ridimensionato e poi cancellato. Eppure…
Da una ventina d’anni Giosuè Carducci è quasi scomparso dalla scuola. Se n’è andato pian piano, alla chetichella: dal 1987 a oggi, ogni anno in cui ho fatto il commissario esterno agli esami di maturità nei licei italiani, prima l’ho visto ridimensionato alla lettura di poche poesie (le più celebri), poi cancellato definitivamente. E pensare che, fino agli anni Sessanta, i suoi versi venivano imparati a memoria già alle scuole medie e Carducci rappresentava con autorevolezza, insieme a Pascoli e D’Annunzio, il ruolo del vate nazionale. La sua poesia, evidentemente, è apparsa sempre più lontana dalla sensibilità contemporanea e gli ha nuociuto una certa fama di trombone, nonostante Luigi Russo avesse cercato, in un fortunato saggio dal titolo “Carducci senza retorica”, di separare il grano dal loglio, mettendo in evidenza quanto nella sua opera ci sia di inquietudine novecentesca quasi baudelairiana (“Alla stazione una mattina d’autunno”, per esempio). E pensare che un preside pisano contemporaneo del poeta (era nato nel 1848), di nome Leopoldo Barboni, era così innamorato dei versi carducciani da sfruttare le sue vacanze visitando Bolgheri e Castagneto. Le sue scorribande bolgheresi, tra entusiasmi lirici per l’incanto della Maremma e robusti bicchieri di vino rosso, furono immortalate in un libretto agile e appassionato, ormai introvabile da tempo, intitolato “Col Carducci in Maremma”. Il buon preside, fervente garibaldino e adoratore della Toscana (prima di trasferirsi in Sicilia,
nell’ultima parte della sua vita, non aveva mai visitato non dico l’estero, ma neppure altre regioni se non la Toscana, e anche quella per lo più limitata al pisano e al livornese), arrivò a Bolgheri la prima volta nel febbraio 1885, accolto con tutti gli onori dal conte Valfredo della Gherardesca. Il borgo contava all’epoca oltre 1200 abitanti e Barboni rimase incantato a contemplare la casa d’infanzia del poeta, osservando attentamente le finestre dove il poeta fanciullo si affacciava “per vederci anche a leggere nei rossi crepuscoli della primavera maremmana”, come scrisse lo stesso Carducci. E in quelle stanze, per sua stessa testimonianza, lesse l’Iliade, l’Eneide e la Gerusalemme Liberata e compose i primissimi versi in morte della sua civetta. Con ingenuo trasporto, Barboni declama a voce alta per i vicoli di Bolgheri le poesie del suo idolo, che conosceva tutte a memoria, e si convince di poter riassaporare meglio quei versi, ora che è immerso nell’atmosfera dei luoghi originari carducciani. Una rivisitazione che fonde il pieno contatto con la natura e la cattura dell’ispirazione poetica, cogliendo l’aspetto meno caduco della personalità di Giosuè, quello diviso tra l’ansia della biblioteca (la passione di leggere e studiare tutto, immergendosi nelle pagine dei libri) e la voglia di mandare al diavolo “il tarlo del pensiero” e di scaraventarsi felice nella bellezza della natura, fra corse in campagna e a cavallo, la caccia al cinghiale e il recupero della spensieratezza selvaggia dell’infanzia.
Tra i personaggi di contorno restano impressi la Bionda Maria dell’Idillio maremmano e il Bombo, un vecchio muratore castagnetano assai amante del vino (come dimostra il soprannome), presso il quale Giosuè Carducci aveva lavorato come apprendista manuale.
Ma il culmine della felicità, Barboni lo raggiunge quando il suo libretto di fan carducciano uscì e fu talmente apprezzato dal poeta che quest’ultimo accettò di incontrare il suo biografo alla torre di Segalari, festeggiando in mezzo a un’allegra brigata di amici chiassosi con una scorpacciata di tordi che inebriò entrambi. Carducci esclamò che gli sembrava di “rivivere quaranta o trentacinque anni addietro”, tanto era felice; Barboni, a leggere le iperboliche emozioni che provava al fianco del suo beniamino, sembra rischiare l’infarto. Al punto da scrivere che avrebbe voluto “agguantare quella veduta, quei monti, quella bassura, quel cielo, quei profumi di timo, quei gorgheggi, mettere ogni cosa in uno scatolino di truciolo e dirgli ‘Tenga, se lo porti a Bologna…’”. Tra i personaggi di contorno, restano impressi la bionda Maria dell’”Idillio maremmano” e il Bombo, un vecchio muratore castagnetano assai amante del vino (come dimostra il soprannome) presso il quale Carducci aveva lavorato da apprendista manovale. Di fronte all’antica fiamma, ormai ridotta a una vecchietta raggrinzita, Giosuè, misurando la distanza tra l’idealizzazione poetica e i danni del tempo, esplode in una “omerica risata”. Il Bombo, invece, segue stordito come un cagnolino il suo giovane lavorante di un tempo, diventato ora “un uomo che fa discorrere tutti, per infino i giornali”, chiamandolo di continuo “bel mi’ topo”. L’unica frase compiuta che riesce a pronunciare è: “Eccolo lì, bel mi’topo! E io, birbante, l’ho tenuto fra’puzzi della calcina!”.