Un flash: stazione di Santa Maria Novella, la borsa scozzese con la bottiglia dell’olio tra le gambe della nonna Giovanna, il fischio del treno. Si partiva per le vacanze. Meta Rosignano Solvay. Alle spalle ci lasciavamo il silenzio della nostra casa in via Senese. Lenzuola bianche sul canapè di velluto verde per difenderlo dalla polvere, come nelle ville dei ricchi. Una buona abitudine, che ti faceva capire il valore delle cose. Al mare ci aspettavano le case basse del viale Trieste. Case operaie, ma in un piccolo paradiso: sul dietro il cannicciato delle verande, dove si mangiava, il cancellino per scendere nella sterpaia che ci separava dagli scogli. E poi il mare. Sulla destra la punta di Castiglioncello, a sinistra, verso l’entroterra, le ciminiere della Solvay. Immense, ciclopiche. Di notte, invece, laggiù, lontano, la luce suggestiva delle lampare. Il mito dei pescatori. Nelle case di viale Trieste abitavano, l’una accanto all’altra, due donne energiche: Alfreda e Silvana. Due nomi più comuni al maschile, però azzeccatissimi. Perché da quelle parti vigeva una specie di matriarcato. Molto fattivo, concreto. La regola era questa: i bagnanti negli appartamenti e loro, i padroni degli appartamenti, nei garage, per tutta l’estate. Però senza mai un moto d’insofferenza. Facevano quadrare così il bilancio domestico. E trasmettevano tranquillità. Anche con lunghe partite a “Scala 40”. Grandi estati della memoria: gli ombrelloni dello Scoglietto, il fungo in mezzo al mare dei Canottieri, i cantanti di moda ai bagni Sirena. E il gelato all’amarena nelle coppette sulla Aurelia, al suono dei rapidi che sfrecciavano verso Roma. Poi, improvviso, lo strappo. Uno choc: davanti alle case basse di viale Trieste costruirono un colosso di cemento. Più largo che lungo, un colosso nano. Addio sterpaia, addio lampare. La Silvana e l’Alfreda non si persero d’animo: “Ci salverà dal libeccio”. Ma per noi ragazzini il libeccio era il divertimento dell’estate, la paura dei cavalloni, il fascino delle finestre sprangate come in un fortino assediato. Maledetto colosso. Finiva così la stagione di Rosignano e cominciava la risalita del promontorio: Caletta, Portovecchio, Castiglioncello-Castiglioncello, quella della piazzetta e del Caffè Ginori. Castiglioncello scritta una volta sola è come Los Angeles: comincia da Crepatura e arriva fino al Chioma. Non finisce mai, insomma. E i cartelli stradali non aiutano a capire i confini, scanditi dai borri. Eppure si potrebbe fare come nel Comune di Pietrasanta: Marina di Pietrasanta-Tonfano, Marina di Pietrasanta-Focette, eccetera eccetera. Castiglioncello non è stato solo il luogo delle vacanze in gioventù, e oltre. Castiglioncello è stato il luogo dell’anima. Un’anima di famiglia. L’amore di mio padre per il Quercetano, per il Castello Pasquini, per le Spianate dei Macchiaioli, e per gli scambi di battute con gli amici del club delle “Gomme lisce”, quando lui scendeva in paese a fare la spesa. Quell’amore ci ha contaminato tutti, comprese moglie e figlia. Che qui rivive le passeggiate nella pineta Marradi e alle giostre con la nonna Maria.
Castiglioncello: una cena alla Capannina accanto al tavolo di Marcello Mastroianni e sua moglie Flora, resistendo alla tentazione dell’autografo (“Buonasera”. “Arrivederci”), il varo del festival del cinema con lo zampino del “Corriere della Sera”, i libri alla Limonaia, la messa in pineta. Peccato che in spiaggia bisognava leggere il giornale a braccia strette. Un tormento… E allora via sulla spiaggia di Vada. Da Giacomo. Con la pizza della Valma, indimenticabile Valma, nello zainetto. E se il ciuco più buono è di Vada, di Vada sono anche gli occhiali, le salsicce, il gelato e il cocomero. Come di Cecina sono il parrucchiere, il pasticciere, il sarto. Versilia? Giammai. Qui c’è l’aria migliore. Ed è aria di casa. A Castiglioncello era nato anche il più bello dei nostri gatti: Miele. Bianco e arancione. Fisico perfetto. Arrivò sulla terrazza di via Tagliamento miagolando. Mangiò, si distese sulla poltroncina del giardino e di lì non si schiodò più. Il combattente di strada aveva deciso di cambiar vita. Sguardo magnetico. Un gatto che trasmetteva un che di sacrale. Quando se n’è andato, occhi negli occhi, l’ho bagnato con l’acqua. Quella di questa terra e di questo mare, idealmente. Acqua salata e dolce, dalla Cala dei Medici alla sorgente del pecoraio, al Terriccio. Acqua amica. Acqua benedetta, direi.
Di Paolo Ermini