Giorgio Meletti Cavallari si svela: “Non ho mai scavato nel passato ma devo tutto ai miei genitori”
Una storia da film quella del giovane Giorgio. Poco più che trentenne già raccoglie i frutti della sua decennale e individuale attività di produttore. Il cognome infatti è significativo a Bolgheri: Meletti Cavallari. Suo padre, con Grattamacco, è stato uno dei padri del miracolo vinicolo del territorio. E lui non finirà mai di ringraziare la famiglia che lo ha accolto e che gli ha regalato una vita a cui non avrebbe mai potuto aspirare. “Per i miei sono stato un grande dono e loro lo sono stati per me, non ho mai voluto scavare nel mio passato, non ne sentivo la necessità. Ho sempre saputo la mia provenienza, i miei non ne hanno mai fatto mistero e di questo gliene sono grato”. Il nome poi, probabilmente non è casuale, Giorgio dal greco georgos, significa coltivatore della terra. E oggi lo sente suo, più che mai. Oggi che ha dato vita anche a due nuove etichette: il bianco che mancava alla produzione e un rosato, in via sperimentale.
Si apostrofa come “dono”… Sì, come un grande dono sono stato portato da una cicogna a Paola e Pier Mario Meletti Cavallari. Mia madre mi ha avuto piccolissimo, prendevo ancora il latte. So di essere figlio di una ragazza madre molto giovane che ha scelto di darmi in adozione. Per i miei genitori un grande dono per me una grande fortuna.
E’ mai tornato sulle tracce del suo passato? Non ne ho mai avuto l’interesse, ho apprezzato il fatto che i miei genitori non mi hanno tenuto nascosto “il fatto di essere un figlio adottato”. Spesso abbiamo parlato del passato, della ricerca, anche scherzando… l’interesse può esserci ma quando vivi una vita in cui hai ricevuto tutto, l’altro è forse solo un corpo che ti ha creato. Spesso penso che la gioia immensa che hanno provato i miei ricevendomi è pari al dolore di lei che mi ha ceduto. Ormai non è più interessante direi magari avrebbe potuto cercarmi lei…Da poter essere stato un bambino da orfanotrofio, la realtà dei fatti è stata molto più che positiva per me. Le persone che mi stanno intorno sanno ed io ho sempre saputo.
Prima di trasferirvi qua cosa facevate? Mia madre era insegnante di lettere, alle medie, a Bergamo e mio padre commercialista nello studio Zanchi di famiglia. Lui decise di cambiare la sua vita, il primo step fu aprire un’enoteca a Bergamo che si chiamava “Vino buono” , erano i primi anni ’70, fino al ’77. Poi si è messo alla ricerca di un luogo dove poter far vino. Capitò l’occasione a Castagneto, a Podere Grattamacco. Un’azienda in stato di abbandono. All’inizio erano mio padre e Claudio Traini per un totale di 43 ettari.
L’investimento fu importante? Il terreno era del professor Scaramuzzi, rettore di Agraria a Firenze e famiglia storica del territorio. Nel ’77 si concluse l’affare Grattamacco. Quando ci siamo trasferiti non c’era ancora il riscaldamento, il podere era diroccato ed è rimasto così fino all’83. Abitavamo con i Traini dividendo la casa a Lugagnano e diciamo che si cercava di tirare alla giornata. L’investimento era stato grande. Si sono fatti da soli in un periodo in cui del miracolo Bolgheri ancora non si aveva il minimo sentore.
E iniziarono la produzione? Con vigneti sia a bacca bianca (trebbiano, malvasia) e rossa (sangiovese, canaiolo) . E nello stesso anno i primi due vini in damigiane sfuse e la metà imbottigliata. Curioso che il professor esordì con mio padre: “Io gliela vendo ma le do un consiglio. In questo terreno faccia di tutto ma non ci produca vino!” (ride, ndr). Era il ’78 e non è stata un’avventura facile. Mio padre ancora non aveva conoscenze tecniche spiccate. Non aveva generazioni impegnate nel vino. Ma grande abilità nei conti, nell’economia. Ebbe però la grande fortuna di avvicinarsi, sin da subito a personaggi quali Veronelli, Giorgio Grai enologo trentino, e Carlo Zadra produttore della Franciacorta. L’hanno guidato nella costruzione dell’azienda. Non per ultimo poi il professor Attilio Scienza. Esperienze nel loco ma soprattutto nel mondo. Dall’83 mio padre ha cominciato a produrre non più quantità ma qualità e nell’’85 sono arrivati i primi tre bicchieri. E poi il cabernet sauvignon che il Marchese Mario Incisa sperimentava a Sassicaia. Allora furono spiantati e ripiantati i vigneti, la cantina poco alla volta si è andata a migliorare, concludendosi verso la metà degli anni Novanta.
E lei, quando la volontà di mettersi in proprio? Ho sempre partecipato in maniera attiva ai lavori dell’azienda familiare, mentre studiavo agraria a Siena. Grattamacco fino al 2002 è sempre stata a gestione familiare. Dopo gli studi ho aiutato mio padre nella cantina e nei vigneti, poi però la gestione aziendale di padre e figlio era complicata. Se fossi rimasto alla direzione dell’azienda non sarei mai emerso, sarei rimasto in ombra. Mio padre non è un uomo da pensione. Dopo anni di gavetta così, nel 2002, ho deciso di aprire la mia azienda e contestualmente Grattamacco è passata a Colle Massari. Mi sono occupato di alcuni terreni di nostra proprietà, Campo al Pero (4 ettari) che nel 2003 mi avrebbe dato i primi vini. Poi l’acquisto dei terreni di Piastraia che si sono affiancati a quelli che mi erano rimasti di Grattamacco (una decina in totale, adesso sono rimasti 7) e nel 2004 la realizzazione della cantina.
In questa cantina ha accolto anche altri produttori? Sì, adesso ho costituito anche una cooperativa i “vignaioli bolgheresi”.
Il nome dell’azienda è Borgeri? Sì ho voluto concederle uno spirito storico. E infatti il nome volgare di questa frazione che ho ritrovato in una cartina di Leonardo da Vinci del 1453, dove c’erano le mura di Bolgheri con la scritta Borgeri. Negli ultimi anni è arrivato l’agriturismo Villa Borgeri, località Vallone di Segalari dove adesso ho piantato i vigneti del nuovo bianco.
Un’esperienza importante al fianco del padre ma ha saputo concretizzare una sua strada… Non nego che i contatti di mio padre mi hanno agevolato certe procedure. Lui è stata una guida indispensabile. Io lo stimo e lo ammiro tantissimo. Ha sempre intrapreso esperienze nuove, riuscendo. Ma anch’io mi sono fatto le mie esperienze a Bellavista in Franciacorta, a San Felice nel Chianti e in California a Napa Valley. Nel frattempo è arrivata anche mia figlia Camilla, era il ’99 e mi sono un attimo frenato. In tanti, hanno visto in me una copia di mio padre. Quasi lo volessi imitare, ma non ho certo trovato la pappa scodellata. Questo deve essere chiaro.
Tra l’altro da poco è entrato nel direttivo della Tenuta delle Ripalte, la nuova realtà vitivinicola di Pier Mario… Sì sono diventato consigliere perché mio padre ha troppe responsabilità e vuole, giustamente, delegare qualche impegno. D’altronde il prossimo anno compierà 70 anni e insomma è giusto anche un po’ di riposo. E’ un’impresa diversa, tecnicamente complicata. Lavorare con gli isolani è impegnativo, inserirsi nel territorio non è stato semplice ma mio padre è sempre stato bravo in questo.
Ci racconta le nuove proposte vinicole? Del 2011 la vendemmia del bianco e del rosato. Il primo proviene dalle vigne di Villa Borgeri che un tempo erano di Michele Satta (lì è nato Giovin re): vermentino e viognier (7000 bottiglie). Il rosato a base di Syrah e Merlot (3500 bottiglie). Il rosato nasce come un gioco tra colori e sapori, una sfida tra me e mio padre perché anche lui all’Elba ha creato un rosato l’anno scorso e pare che l’enologo, Maurizio Castelli, tenda dalla mia parte. Il bianco era importante, completa la produzione e negli ultimi anni fa da traino al rosso…
Quel genio di Satta… I tre nomi di Bolgheri sulla piramide per me sono Sassicaia, mio padre e Satta che già nel ’76 gironzolava nel territorio. Non so come non si sia ancora stancato (ride, ndr)
Cosa si può fare per questo territorio e per le sue forze economiche? Valorizzazione. Serve un progetto unitario tra produttori e amministrazione comunale. Ma questo contatto per ora sembra non essersi realizzato , un po’ per mancanza di fondi e un po’ perché è più facile far andare avanti tutto così che imporsi per cambiare.
Lei ha partecipato attivamente alla disputa per il passaggio al nuovo disciplinare sulla doc Bolgheri. Era un dissidente, contrario su tutta la linea. Sono cambiate le cose? Siamo a Bolgheri grazie a un nome: Sassicaia. Un’idea forse non condivisa. Noi siamo discepoli ed è di tutto guadagno andare in giro con lui. Per quanto riguarda i monovitigni, numericamente molto ridotti, ce ne sono ottimi sul territorio ed uno è tra i più costosi in Italia, il Masseto. Nonostante i percorsi burrascosi del disciplinare la filosofia delle aziende è rimasta inalterata. Il prodotto di Bolgheri è rimasto ancorato alla tradizione.
Quindi prossimo passo Doc Bolgheri? Sì, anche in virtù delle amicizie che ho con i consorziati. Il dispiacere di molti è che ci si aspetterebbe qualcosa di più, ma credo che nel giro di due anni il progetto unitario dovrebbe decollare. Non è utile avere diecimila associazioni e consorzi paralleli Troppi, piccoli e che fanno poco. Meglio veicolare le energie in un unico sistema di promozione anche con la Strada del Vino.
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